sabato 31 dicembre 2011

il dio Giano



Lauras Alter Ego, una rielaborazione di Giano, opera di P. Hutter


Vi faccio gli auguri con un'immagine insolita del dio Giano, una delle più antiche divinità romane. Di origine italica, veniva chiamatoDivus Deus dio degli dei, ed era colui che presiedeva a tutti gli inizi. A Giano, dalla cui radice deriva anche la parola ianua (porta), il re Numa Pompilio dedicò il mese successivo al solstizio, Ianuarius che divenne definitivamente il primo dell'anno dopo la riforma del calendario di Giulio Cesare, nel 46 a.C.
Dietro questa figura si cela un mitico sovrano del Lazio che, fondata una città sul colle Gianicolo, ospitò il dio Saturno ed insieme governarono durante l'età dell'oro. Durante quell'epoca mitica, regnavano la giustizia e l'abbondanza, mentre Saturno insegnò agli italici i segreti dell'agricoltura.
Giano nella Roma classica era tenuto in altissima considerazine:  non aveva un proprio sacerdote come gli altri dei, perchè a lui sacrificava il Rex Sacrorum, che apriva  tutte le processioni sacre. Il suo tempio nel foro teneva aperte le porte durante le guerre, affinchè il dio potesse correre in aiuto della città nei momenti critici.
Come divinità dei passaggi, sia temporali che fisici (presiedeva alle porte, ai ponti e a tutte le soglie) era raffigurato con due facce: una di vecchio e l'altra di giovane, a simboleggiare la continuità tra passato e futuro.
Non è poi un caso che la tradizione cattolica associ ai solstizi, ritenuti in epoca pagana le porte degli dei e degli uomini, le feste dei due San Giovanni, il Battista in estate e l'Evangelista in inverno, il cui nome, che in ebraico significa Dio è misericordioso,  ha però un'assonanza fonetica con il latino Giano.
Auguro a tutti voi,per il prossimo decennio, di prendere esempio  dal  dio Giano, ossia di far tesoro delle esperienze del passato, anche se negative, per poter guardare avanti con fiducia e coraggio, così da costruire un avvenire di prosperità.

lunedì 12 dicembre 2011

le quattro tempora




Capita, sfogliando vecchi lunari di trovare l'indicazione Quattro Tempora, talvolta abbreviata in Q.T. Si tratta di un periodo di tre giorni, il mercoledì, venerdì e sabato nell'arco di una stessa settimana, che era dedicato alla preghiera e al digiuno.
Le Tempora ricorrono in ogni stagione: abbiamo le Quattro Tempora di primavera, estate, autunno e inverno. Probabilmente di origine celtica, come molte ricorrenze cristiane, furono introdotte per la prima volta nel calendario liturgico nel IV – V secolo dopo Cristo. Cadevano nella settimana dopo le Ceneri, la Pentecoste, l'Esaltazione della Croce (14 settembre) e a metà dell'Avvento, dopo la festa di S. Lucia.
Non erano però solo giorni di digiuno e penitenza, ma anche un'occasione propiziatoria e di ringraziamento per il raccolto dei campi. Secondo Cattabiani, che nel suo Calendario dedica qualche pagina alle Quattro Tempora, queste giornate erano nate per cristianizzare le cerimonie dedicate alla Grande Madre, che, con la sua ciclica rinascita, sovrintendeva alle messi e al lavoro agreste.
A maggio, nell'antica Roma, si celebrava la "Lustrazione dei campi" per propiziare il raccolto, mentre a settembre si teneva un banchetto in onore degli dei, rappresentati da simulacri, per offrire loro i prodotti della terra. Anche negli altri periodi in cui i ricorrevano le Tempora, ossia all'inizio e alla fine dell'inverno, nell'antichità ricorrevano cerimonie di purificazione.
In epoca cristiana, le Quattro Tempora duravano una settimana, con tre giorni dedicati al digiuno. Conosciute in occidente come Jejunum vernum, aestivum, autumnale et hiemale, non ebbero grande diffusione nella Chiesa ortodossa.
Venivano osservate, invece, nel mondo anglosassone: addirittura, in Britannia, comparvero abbastanza presto, grazie – si dice- alla predicazione di Agostino di Canterbury.
Rimasero comunque in auge fino ai giorni nostri: Papa Paolo VI, nel 1966, con decreto Paenitemini, le escluse dai giorni di digiuno e di astinenza. Mentre nella chiesa anglicana divennero opzionali nel 1976.

martedì 6 dicembre 2011

l'Episcopello

La fine dell'anno mi mette un senso di malinconia. Chissà, forse dipende dal fatto che non amo molto l'inverno con le giornate brevi e temperature fredde, oppure da questa frenesia di dover festeggiare ad ogni costo che mi annoia. Allora parlo di una tradizione allegra ma poco nota: quella dell'Episcopello, ossia il vescovo – fanciullo che si celebra in questo periodo.

Nel medioevo il 6 dicembre, giorno di San Nicola, i seminaristi eleggevano un loro vescovo che era poi festeggiato il 28 dicembre, giorno dei Santi Innocenti in una celebrazione parodistica delle funzioni sacre, con danze e lazzi. L'atmosfera goliardica era un'anticipazione del carnevale: si facevano scherzi, si cantavano canzoni licenziose e venivano gettati pezzi di cuoio nel turibolo dell' incenso per rendere l'aria irrespirabile. Nel tempo, la chiesa cattolica, tentanto di arginare queste feste pagane, tentò di vietarne la celebrazione, come fece nel 1537 monsignor Albertin, vescovo di Patti e Barone nella terra di Gioiosa Guardia che proibì con un sinodo la pratica del Vischiccio (altro nome dell'episcopello).
I tempi a ridosso del solstizio erano giorni di festa già nell'antica Roma: si celebravano i Saturnali in ricordo del regno di Saturno, un'epoca mitica, di ricchezza e prosperità, un tempo fuori dal tempo. La statua di Saturno nel foro veniva slegata dalle bende che le avvolgevano i piedi, quindi era eletto un Interrex che regnava in questi giorni di baldoria, libagioni e persino orge. Ci si scambiavano doni, mentre i rapporti sociali erano capovolti tanto che gli schiavi potevano atteggiarsi a padroni. Era eccezionalmente permesso il gioco d'azzardo, che nell'antichità assumeva un valore divinatorio permettendo di conoscere la volontà degli dei. L'Interrex veniva simbolicamente ucciso al 23 dicembre, ultimo giorno dei Saturnali.
La Chiesa cercò di cristianizzare l'usanza ed oltre a celebrare la natività del Cristo il 25 dicembre, attribuì la figura del dispensatore di doni a san Nicola che si festeggiava il 6 dicembre e sulla cui figura è stata ricalcata l' immagine di Santa Claus – Babbo natale. Saturno – Interrex signore del tempo che veniva slegato e “ucciso” alla fine del periodo di caos che rimanda alle epoche mitiche, prima della fondazione del cosmo, richiama quindi l'episcopello e San Nicola. Ma, come tutte le forze primigenie, ha una valenza ambigua, anche spaventosa, infatti la sua statua nel foro rimaneva tutto l'anno legata e veniva sciolta solo nel periodo dei Saturnali. E non a caso , nei paesi nordici, San Nicola è accompagnato da un aiutante, Knecht Ruprecht che ha il compito di castigare i bambini cattivi. Tornando ai giorni nostri, l'Episcopello è celebrato con processioni a Narni, mentre dell'atmosfera goliardica del carnevale, è rimasto qualcosa in Spagna:il 28 dicembre, giorno dei santi innocenti, è dedicato agli scherzi, un po' come il nostro 1 aprile.
buone feste a tutti!

Per saperne di più:
A Cattabiani, Calendario, le feste, le leggende, i miti dell'anno. Mondadori 2003
A. CATTABIANI, Santi d’Italia, vite e leggende, iconografia feste patronati culto. Bur

Comune di montalto di Spoleto:
<a href="http://209.85.129.132/search?q=cache:0wBtuSro0iUJ:www.comune.monteleone-di-spoleto.pg.it/bassorilievo/Ricerca%2520storica%2520sulla%2520figura%2520di%2520S.%2520Nicola%2520senza%2520foto.doc+episcopello&cd=1&hl=it&ct=clnk&gl=it"></a>


Che bolle in pentola? blog di Marina Cepeda Fuentes:
http://www.marinacepedafuentes.com/2009/12/la-fiesta-de-los-santos-inocentes.html

giovedì 1 dicembre 2011

Dicembre



Sull'altro blog, che adesso sto trasferendo qui su blogspot, avevo iniziato un giro attraverso la rappresentazione dei mesi dell'anno.
Per dicembre scelsi un'immagine art nouveau: una delle dodici litografie del calendario illustrato da Eugène Grasset, per i grandi magazzini la belle jardiniere. Formatosi in architettura al politecnico di Zurigo, Grasset, operò nei primi tempi come architetto, poi, trasferitosi a Parigi nel 1871, si dedicò interamente alla pittura e all'illustrazione. Influenzato da Viollet le Duc e da Dorè, di cui riprende il segno fluido, illustrò cartelloni pubblicitari e libri, con la particolare tecnica dell' integrazione tra parole e disegno. Inventò per la fonderia Deberny e Pignot un carattere tipografico che prese il suo nome. Attivo nel campo delle arti applicate e disegnò mobili, cartoni per mosaici, gioielli, e le vetrate della cattedrale di Orleans. Fu un precursore dell'art nouveau: le sue opere dalla linea sinuosa ma sempre ben curate nei particolari, attente alle suggestioni giapponesi e preraffaellite, esercitarono un'influenza su artisti successivi come Mucha.
Il calendario da cui ho preso l'immagine di dicembre raffigura, per ogni mese, ogni mese una donna vestita alla moda ed intenta al lavoro in giardino. L'ambientazione è molto curata, la rigidità geometrica della prospettiva è temperata dalla linea sinuosa, dai colori luminosi e dall'abbondanza di particolari con cui è disegnata la vegetazione del periodo.
Il giardino del mese di dicembre è ghiacciato ma rallegrato dalla presenza degli ellebori, mentre la ragazza reca un fascio di vischio.
L'helleborus niger, più noto come rosa di Natale, è una rizomatosa, della famiglia delle ranuncolacee. Ben si presta ai giardini invernali, infatti resiste bene alle basse temperature. È una pianta velenosa e dal suo rizoma si ricava una polverina irritante un tempo usata come starnutatorio Nell'antichità si pensava che curasse la pazzia, ma che potesse anche causare la morte. Infatti, fino a pochi decenni fa, era usata in farmacia come purgante e vermifugo, ma se ne consigliava prudenza nell'uso, in quanto un eccesso poteva portare al collasso con conseguente decesso del paziente.
Per il periodo di fioritura ed il bianco dei suoi fiori ( si chiama niger dal colore dalle radici) l'elleboro è associato al Natale. Secondo la leggenda, i suoi fiori spuntarono quando nacque Gesù Bambino, oppure secondo un'altra vulgata, fu fatto germogliare da un angelo per consolare una pastorella che non sapeva cosa offrire al Bambinello. In India protegge le partorienti e i neonati.
Il vischio è una pianta parassita, non radicata nel terreno, ma che succhia la linfa dagli altri alberi. Fin dai tempi più antichi, presso vari popoli era ritenuto una pianta magica, tuut'oggi le sue virtù sono riconosciute in Giappone e in Africa.
Pochi giorni dopo il solstizio d'inverno, i druidi usavano tagliarlo con un falcetto d'oro (raccoglierlo con le mani avrebbe causato sciagure), per poi servirsene nei riti religiosi e per preservare il popolo da malattie e sortilegi.
Poiché non aveva radici terrene, si pensava derivasse direttamente dai fulmini e avesse la possibilità di guidare i cercatori di tesoro tanto che alcuni studiosi identificano nel vischio il ramo dorato che guida Virgilio nell'oltretomba. Forse per il suo colore – le foglie e il fusto tendono ad assumere una tonalità dorata dopo essere stati colti, e perchè è tradizione raccoglierlo a ridosso dei solstizi, è identificato con il sole nascente. La sua nascita misteriosa, l'essere senza radici terrene lo ricollegano al Cristo e, dopo una diffidenza iniziale, è stato accolto anche in molti riti cristiani.
Nei paesi del Nord Europa, si pensa che baciarsi sotto un ramoscello di vischio favorisca i matrimoni.

domenica 27 novembre 2011

zucche nostrane





Nelle nostre città, da qualche anno, alla fine di ottobre, è tutto un fiorire di zucche alle finestre delle case o nelle vetrine dei negozi in un tripudio di ghigni arancioni.

Molti storcono il naso di fronte a quella che pensano sia soltanto una moda americana, mentre, se guardiamo con attenzione al nostro passato, vediamo che, porre zucche illuminate ai crocicchi o alle finestre delle case, era una tradizione in voga nelle campagne di quasi tutte le regioni italiane.
La zucca ha da sempre una funzione magica: è associata ad un'idea di rinascita, forse per la sua forma che richiama un ventre gravido contenente i semi al suo interno. Priapo, la divinità associata alla fecondità ma anche al ciclo morte – rinascita, era detto custode di zucche.
La leggenda della zucca di Halloween è di tradizione anglosassone: Jack O' Lantern, un ubriacone che, con uno stratagemma ottenne dal Diavolo la promessa di non essere accettato all'inferno, una volta morto, non potendo certo andare in paradiso, fu condannato a vagare per il mondo con una lucerna nascosta dentro una rapa. I primi coloni importarono la tradizione negli Stati Uniti, ma, visto che lì le rape scarseggiavano, vennero sostituite dalla zucca.
La tradizione non è però solo nordica, non è soltanto un ricordo del Samain,il capodanno celtico che segnava il passaggio da un anno agricolo all'altro. Come racconta Eraldo Baldini nel suo saggio Halloween, nei giorni che i morti ritornano, anche in Italia i primi giorni di novembre erano vissuti come una sorta di capodanno, nel quale, come in tutti i momenti di passaggio c'era un rimescolamento tra il visibile e l'invisibile.
Molte sono le tradizioni popolari che riguardano il ritorno dei morti, alcune spaventose, altre divertenti in un tentativo giocoso di esorcizzare una paura ancestrale. La Caccia Selvaggia, un mito di derivazione germanica presente nelle regioni del Nord, racconta di una minacciosa battuta venatoria delle anime dei trapassati, mentre in Trentino è sconsigliato stringere la mano ad un morto che si incontra per la via: si rischia di dover tenere con sé una delle sue dita fino all'anno successivo.
Ma tornando alle zucche: come molti simboli hanno la doppia valenza sia apotropaica, che di rappresentazione.
Le Lumere, ossia le zucche intagliate con quattro fori a rappresentare gli occhi, il naso e la bocca e dentro cui veniva acceso un lume, erano messe ,sia in Lombardia che in Piemonte, ai lati delle strade o alle finestre delle case. Rappresentavano l'anima del trapassato, ma avevano anche funzione di tenere lontani gli spettri redivivi. In Veneto la suca bruca e in Romagna la Piligrena simboleggiavano il fuoco fatuo e, tra i lazzi dei ragazzini, spaventavano i passanti che si avventuravano per i sentieri bui. In Trentino si usava addobbare la croce del cimitero con tanti piccoli lumicini mentre sul braccio maggiore la zucca vuota illuminava la notte come un sinistro teschio.
In alcune regioni la zucca era chiamata la morte: in Friuli zucche vuote dette anche la morte zucheta adornavano le tombe nel giorno di Ognissanti o della ricorrenza dei defunti. In Toscana, benché non strettamente legata alle ricorrenze dei primi di novembre, ma diffusa durante l'intero ciclo autunnale, la zucca illuminata era chiamata morte secca e, sempre nello stesso periodo i ragazzini costruivano lo zozzo, un fantoccio vestito di stracci che come testa aveva appunto una zucca e con il quale si divertivano a terrorizzare gli amici.
Abbiamo prima accennato a Priapo il dio della fecondità e del sottosuolo come divinità legata alle zucche: in Abruzzo, la zucca vuota era adornata di corna talvolta formate da due peperoncini – pianta afrodisiaca- ed era detta morte cazzuta. Veniva portata in giro per il paese da ragazzini, rappresentazione dei defunti redivivi, che si fermavano con schiamazzi davanti alla casa degli uomini presunti cornuti.
Sappiamo già che, in molte parti d'Italia, San Martino era la festa dei cornuti: in un momento di confusione tra vita e morte, da una parte si portavano a galla, per esorcizzarli, i peccati che minavano l'ordine sociale, dall'altra un riferimento all'erotismo, sia pure irregolare, e alla procreazione era ritenuto di buon auspicio. Così la zucca, che grazie alla sua forma poteva richiamare sia il fallo che il ventre materno, diventava il simbolo della rinascita mentre i morti all'11 novembre terminavano il loro passaggio sulla terra per ritornare nelle dimore sotterranee, custodi dei semi e della vita che si rinnova anno dopo anno.

venerdì 25 novembre 2011

Halloween nel giorno che i morti ritornano



Con la festa di S. Martino, il cavaliere  patrono dei traslochi, che chiudendo la stagione contadina, ci traghetta verso l'inverno e il sonno della natura, termina il dodekaemeron, il periodo di dodici giorni quando il mondo visibile si mescola a quello invisibile; tempo di apertura dei canali con l'aldilà e di morti che si affacciano alle nostre case.
Il libro di Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi ci presenta un' interessante indagine, più che sulla festa di Halloween in sé, proprio sul culto dei trapassati e sulle tradizioni ad esso connesse.
Quando è uscito nel 2006 infatti erano forti le polemiche, come si spiega nel secondo capitolo, sull'opportunità di festeggiare Halloween, ritenuta da alcuni una festa commerciale importata dagli Stati Uniti, da altri una moda pericolosa che, banalizzando il sacro, avrebbe aperto la strada a nuove forme di paganesimo.
Gli autori, forti dei loro studi di antropologia, ci raccontano di come, in realtà, la festa di Halloween fosse “emigrata” nel nuovo mondo con i coloni irlandesi che “esportarono” la leggenda di Jack O' Lantern, il non-morto destinato a vagare alla luce di una lanterna contenuta in una zucca, per poi ritornare in Europa con la nuova colonizzazione commerciale.
Tuttavia, si racconta nei primi capitoli, la tradizione che i morti ritornassero nei primi giorni di novembre da sempre diffusa nelle nostre campagne, affonda le radici in culti pagani, sopravvissuti all'avvento del cristianesimo e, in alcuni casi, adottati dalla stessa chiesa.
I cortei allegri ragazzini, le questue e persino le zucche, erano, prima che arrivasse in Italia la moda di Halloween “commerciale”, nelle zone rurali, un modo per allontanare la paura della morte con speranze di rinascita e magari sentire più vicini i trapassati, mantenendo vivo il loro ricordo.
L'ultima parte del libro, non a caso intitolata “prima che si chiamasse Halloween”, dedicata al culto dei defunti nelle varie regioni italiane, ci mostra come caratteristiche della festa della Vigilia di Ognissanti, fossero presenti molto prima dell'avvento della televisione e della globalizzazione, addirittura in zone del tutto estranee alle influenze celtiche.
I morti che tornano mettono in alcuni casi spavento, come nella leggenda della “caccia selvaggia”: il corteo di cacciatori fantasma che attraversa le notti delle regioni del nord. In Sicilia sono invece presenze benevole che, la mattina del 2 novembre, portano doni ai bambini.
Più spesso sono  “presenze colloquiali”, In Trentino altro non chiedono che un giaciglio per riscaldarsi, ed è uso alzarsi presto la mattina per lasciare il letto caldo a qualche anima, o offrirle un piatto di minestra. In tutte le regioni si consumano  cibi rituali come minestre di ceci, fave e fagioli. Elementi che hanno in sé il seme della rinascita, così come i defunti, da sottoterra sono il seme della nuova vita in analogia con la natura che, morendo in autunno, porta in sé la premessa della rinascita primaverile. 
E il richiamo alla nuova vita sopravvive anche in molte tradizioni non più spaventose, ma divertenti e goliardiche, che richiamano alla fecondità : in Toscana, la zucca adornata di afrodisiaci peperoncini è chiamata la morte cazzuta, mentre in Abruzzo e in diverse regioni dell'Italia centrale,  S. Martino viene festeggiato, come patrono dei cornuti,in una specie di concessione alla sessualità disordinata, ammessa in un periodo senza regole, di commistione, come è il dodekaemeron, momento di caos che precede una nuova creazione.

E. Baldini, G. Bellosi; Halloween nei giorni che i morti ritornano. Einaudi 2006

mercoledì 23 novembre 2011

Novembre

Immagino che se vi damandassi:"Quale mese dell'anno vorreste eliminare dal calendario?"
Le risposta più gettonata sarebbe:
"Novembre!"
In effetti questo mese, all'apparenza, ha ben poco di allettante: non ci sono feste o ricorrenze particolari ad esclusione dei Santi e (potete darvi una toccatina) della Commemorazione dei Defunti, che gli sono valse la fama di mese "triste e stanco"
Novembre è associato alle nebbie e al freddo che avanza, mentre le giornate, sempre più corte, invitano a cupe riflessioni sulla caducità della vita.
E' un mese di passaggio: nei primi dodici giorni detti del dodekameron, i celti celebravano il loro capodanno, il Samain, del quale troviamo tutt'oggi un'eco nella festa di Halloween. Tempo di transizione sono i primi giorni novembrini, un "tempo fuori dal tempo" e, come in ogni altro periodo che segna il trascorrere da una stagione all'altra,si pensava che i morti tornassero sulla terra.
La prima decade di Novembre è affine, per riti e tradizioni, ad un altro "tempo di passaggio" che è quello tra febbraio e marzo; non a caso i riti del Carnevale, con le loro maschere, cui è spesso associato il falò del Carnevale stesso, hanno un che di macabro e inquietante.
I morti che tornano, a volte burloni a volte eteree figure malinconiche, sono presenti in parecchie culture, guardati con un misto di affetto e timore e le maschere altro non sono che un tentativo di esorcizzarli. Abbiamo morti buoni che portano doni ai bambini, come succede nelle terre del meridione d'Italia, oppure presenze inquietanti come accade in Trentino, dove gli abitanti dei villaggi usano lasciare agli spettri di parenti e amici dei regalini per non incappare nella loro ira.
Il santo del mese è Martino, vescovo di Tours, vissuto nel 300, che si distinse come persecutore degli antichi culti pagani soprattutto di quelli di tradizione celtica, ma la cui iconografia è stranamente ricalcata proprio su una divinità celtica. Martino è infatti raffigurato con una mantellina corta sulle spalle dopo che aveva tagliato in due il suo mantello per rivestire un mendicante.
Sappiamo che i Celti della Pannonia veneravano un misterioso cavaliere, signore del mondo infero e della rinascita, talvolta raffigurato con un corto mantello e accompagnato da un'oca. L'oca, animale associato San Martino nelle raffigurazioni e nei proverbi, (Chi non ricorda per san Martino, oche castagne e vino) era per i celti il misterioso messaggero dell'aldilà.
Mese di transizione dunque Novembre (fare San Martino significa in molte parti d'Italia traslocare), mese feriale per eccellenza. Non a caso il segno zodiacale che lo governa è il misterioso Scorpione. Costellazione associata alla morte necessaria ad ogni rinascita, indice della macerazione e del ritorno al caos indispensabili per tornare a nuova vita.
Eppure, benchè poco amato - io stessa amo le stagioni decise, la luce abbagliante di luglio, Novembre ha molti doni da offrire. Non so se avete notato i fiori di questo periodo: i crisantemi declinati nelle tonalità calde del giallo e dell'arancio, le eriche di un rosso cupo, i ciclamini. Tutte specie forti e resistenti al freddo e alle intemperie. E poi i frutti saporiti e sostanziosi. Le melagrane, le castagne, le noci le zucche, quest'ultime entrate nel nostro immaginario come simbolo di trasformazione e rinascita (vi dice niente la favola di cenerentola?)
E' bello nelle sere di Novembre intrattenersi a tavola con amici - nella mia compagnia, molti sono nati in questo periodo- sgranocchiare castagne accanto al fuoco, magari dopo una cena ravvivata dal vino nuovo. Finalmente si possono mangiare cibi "corposi" come bolliti, bigoli con sugo d'anatra o faraona, i bogoni, la polenta,i bei dolci a base di cioccolato o marron glacèe. E finalmente la pearà, una salsa veronese a base di pangrattato e pepe, di cui presto vi darò la ricetta. A me piace molto, ma, visto che non sono amante della carne, la mangio col pane !
Il tempo freddo invita a stare dentro, i pomeriggi che declinano presto convincono a sedersi in qualche "caffè" del centro e scambiare leggere parole scaldandosi le mani attorno ad una tazza di cioccolata.
Non è ancora il tempo delle feste "obbligate" che impongono estenuanti riunioni al desco con famiglie e parenti, o delle noiose cene aziendali.
Ci si incontra e magari si cena assieme così, per il piacere di farlo, per la voglia di stare in compagnia delle persone che ci siamo scelti: i nostri amici.
E' per questo che considero Novembre come il "mese dell'amicizia".
Tra un po' inizia lo stucchevole Dicembre: prepariamoci a stringere mani appiccicose di canditi e zucchero filato.

martedì 22 novembre 2011

Almanaccando



Non so con esattezza come sia nata la mia passione per gli almanacchi. Ricordo che, fin da quando ero piccola, sfogliandone qualcuno, mi appassionavo ai proverbi, alle previsioni meteorologiche e al mutare delle fasi lunari, tanto da chiedere a mia nonna lumi sul lavoro nei campi.
Almanacco è una parola che deriva dall'arabo Almanack, che indica le tavole per le misurazioni astronomiche.
Il primo almanacco che ho conosciuto è quello di Frate Indovino.
Questo calendario, che è presente in parecchie cucine italiane, uscì nel 1945 e fu redatto dal padre Cappuccino Mario Baudelli che, dietro lo pseudonimo di Frate Indovino, lo curò fino alla morte. Fin dalle prime edizioni dell'Almanacco francescano, ai santi e alle festività religiose vennero ad affiancarsi consigli per i coltivatori, per le donne di casa e per i giovani. Una curiosità: la pubblicazione dell'Almanacco subì una battuta d'arresto nell'anno 1951, poiché il Ministro generale dell'ordine dell'Ordine dei Cappuccini, preoccupato per l'aggettivo Indovino attribuito ad un frate, ne decretò la sospensione della pubblicazione. L'almanacco uscì comunque ma già dall'annata successiva riprese, dopo alcune modifiche, le pubblicazioni. La nuova edizione, a colori, e con le tavole illustrate dei mesi, raggiunse le 12.000 copie e si diffuse in tutta Italia. Penso che molti di noi se ne ricordino qualche edizione particolare; a me è rimasta nel cuore quella del 1982 con le filastrocche del simpatico fraticello Cimabue. Ho appeso Frate Indovino nella mia stanzetta e l'edizione 2008, rimodernata nella grafica, racconta per ognuno dei dodici mesi i casi di serendipità, ossia di scoperte fortuite, avvenute mentre si cercava qualcos'altro.
Non è l'unico fra i miei almanacchi: tengo il Barbanera, dove spesso controllo di quanto si allungano le giornate, oltre che gli oroscopi e i consigli per le ricette e per la casa. E' il più antica lunario italiano, risalente al 1791. Pare che dietro questo pseudonimo si celasse un frate eremita veramente esistito a Foligno. L'almanacco di Barbanera si diffuse presto in tutta Italia, anche tra i ceti colti. Gabriele d'Annunzio che ne conservava parecchie edizioni al Vittoriale, in una lettera scrisse: "...La gente comune pensa che al mio capezzale io abbia l'Odissea o l'Iliade, o la Bibbia, o Flacco, o Dante, o l'Alcyone di Gabriele d'Annunzio. Il libro del mio capezzale è quello ove s'aduna il 'fiore dei Tempi e la saggezza delle Nazioni': il Barbanera..." Oggi,oltre all'edizione "classica" ne esiste una più "moderna" e colorata, mentre l'eremita - astrologo si è come dire "attualizzato" dotandosi persino di un sito internet.
Un Lunario Trentino, appeso dietro la porta della cucina, riporta le tradizioni della mia terra d'origine, con i piatti tipici e le poesie per ogni mese.
Interessante è il Lunario Veneto che sta proprio sopra la mia scrivania, redatto in dialetto veronese del poeta Dino Coltro. È diviso, come gli antichi lunari, in quarantie ossia periodi di circa 40 giorni computati sulle fasi lunari, che prendono, il nome dalle stagioni o dai santi. E' sulle quarantie che un tempo si basavano le previsioni meteorologiche e i lavori agricoli. Per ogni giorno della settimana c'è un proverbio e una regola ossia una massima di saggezza contadina.
Non è un almanacco ma un libro il Calendario di Alfredo Cattabiani, scrittore e studioso di tradizioni popolari. In questo volume, edito da Mondadori, scandito dall'andamento del calendario cristiano, si racconta, dopo studi approfonditi, di feste, tradizioni e credenze legati ad ogni periodo dell'anno. Io lo tengo in cucina,(a proposito, è uno dei pochi libri che ho acquistato in edizione non economica, visto che pure la copertina è molto bella), e ogni tanto lo "pilucco" per trovarci sempre qualcosa di nuovo relativo ai giorni in corso.
Infine, come non dimenticare l'almanacco per eccellenza, ossia l'Almanacco del giorno dopo, trasmissione di Rai Uno curata da Giorgio Ponti, Diana de Feo e Flora Favilla, che è andata in onda, poco prima del telegiornale dal 1976 al 1994.
Penso che la sua sigla abbia scandito le cene di tutti noi. L' Almanacco era condotto inizialmente da Paola Pelissi, cui in seguito si aggiunsero le annunciatrici Pepi Franzelin e Ilaria Moscato. Dopo l'apertura, con l'orario del sorgere del sole e della luna, il santo del giorno e una piccola curiosità ( come in tutti i lunari che si rispettino) venivano una serie di rubriche: Domani Avvenne, uno spazio fisso dove si raccontava un avvenimento occorso nella data odierna, mentre le rubriche successive cambiavano a seconda del giorno della settimana. Tra le più note ricordo La Fiera delle Vanità, condotta da Diego della Palma, Conosciamo l'Italiano, di Cesare Marchi, Dalla parte degli animali, a cura di Danilo Mainardi, Vecchio e Antico di Claudio Gasperini. La trasmissione si concludeva con un proverbio o una massima e l'immagine del Tempo che indicava "è finita la Comedia"
Credo che il fascino dell'Almanacco fosse merito anche dalla sigla e dagli intermezzi musicali che si intercalavano alle varie rubriche .
Sia la sigla d'apertura che gli intermezzi proponevano stampe secentesche dell' incisore Giuseppe Maria Mitelli, ed erano accompagnate dalle note di Chanson Balladée composta nel '300 dal musicista Guillaume Machault e riproposta dall'Orchestra del Chianti. Penso che tutti la ricordiate: un prisma su cui ruotavano le immagini dei dodici mesi, ognuno con una sua caratterizzazione: un acquaiolo per il mese di gennaio, un uomo smilzo che, ricordo, mi faceva ridere e che avevo soprannominato "Pampurio", per il mese di marzo, un vignaiolo per settembre ecc. La sigla, benché suggestiva, mi metteva una certa inquietudine. Spulciando su internet, ho trovato, in un forum dedicato agli anni 70, i ricordi di molti utenti che raccontano di aver provato le mie stesse sensazioni davanti alla sigla dell'Almanacco. Uno psicologo spiega che le immagini quanto la musica, sembrano arrivare da un tempo atavico, lontano, catapultate ai giorni nostri attraverso il mezzo moderno per eccellenza: la televisione. Tutto ciò genera una specie di "sfasamento":l'almanacco è un "oggetto" del passato, ma questo è "del giorno dopo", si aggiunga poi che l'orario in cui andava in onda la trasmissione era un "tempo sospeso" , il momento magico del crepuscolo, la fine della giornata, quando passato e presente paiono confondersi.
"L'anno l'è vecio, e tra poco el more" diceva mia nonna all'apparire del mese di dicembre, con quell'angiolone che brandiva la clessidra dietro le spalle di un anziano stanco. Comunque, ho visto, sempre girovagando sulla rete,
che molti ne sono appassionati: in quella soffitta virtuale che è You Tube, ho reperito delle intere puntate dell'Almanacco.
Tracce di questa trasmissione restano ancora in alcuni programmi televisivi e radiofonici: nel corso di Geo e Geo condotto da Sveva Sagramola è presente un "Almanacco degli Animali" mentre, all'interno di Tornando a casa, la trasmissione radiofonica condotta da Enrica Bonaccordi su Radio Uno, c'è una versione adattata dell'Almanacco del Giorno dopo.
Allora mi ci sono messa anche io: su un mio precedente blog tenevo la rubrica "foglietto che non falla" ossia un almanacco casalingo di feste, tradizioni e curiosità che, viste le difficoltà di splinder ballerino, ho deciso di trasferire qui.